Francesco Della Puppa
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Dottore di ricerca in Scienze Sociali, ricercatore, docente e sociologo), Francesco Matteuzzi (giornalista, fumettista e scrittore) e Francesco Saresin (fumettista e disegnatore) sono gli autori di La linea dell'orizzonte. Un ethnographic novel sulla migrazione tra Bangladesh, Italia e Londra.
In questo lavoro di ricerca e conoscenza del fenomeno "onward migration", gli autori illustrano le cause, le esigenze, le storie e l'umanità degli emigrati. Emigrati che raggiungono il nostro paese, si ambientano, vivono qui per tanti anni ma che poi decidono di abbandonare.

Il viaggio della speranza, per una vita migliore.

In questa intervista a Francesco Matteuzzi e Francesco Saresin, scopriamo di più sul progetto editoriale, mentre una approfondita intervista a Francesco Della Puppa ci offre anche uno spaccato della sua ricerca.


Intervista a Francesco Matteuzzi

SDC - In che modo hai trasformato la ricerca di Francesco Della Puppa in un fumetto?
Francesco Matteuzzi - Trasformare una ricerca sociologica in un libro come La linea dell'orizzonte significa principalmente concentrarsi sul materiale scientifico e metterlo in una forma narrativa, sistemando cioè informazioni e avvenimenti in modo che formino un racconto comprensibile in quanto tale senza ovviamente poter inventare nulla di nuovo.

Quindi abbiamo lavorato in questo senso: cercando alcune storie emblematiche da prendere e raccontare. Dopodiché le abbiamo cucite insieme con la storia del ricercatore... nella quale in realtà un po' di fiction c'è, ma lì è concesso perché l'oggetto del libro non è quello che accade a lui.

In ogni caso, sì, c'è un pochino di fiction ma molta meno di quanta si potrebbe pensare.


SDC - Il graphic journalism è senz'altro un interessante spunto di riflessione e di approfondimento che mira a raggiungere un pubblico sempre più vasto.
Francesco Matteuzzi - Vero.

Il linguaggio del fumetto è potentissimo, e usato al pieno delle sue potenzialità dà effetti straordinari. La forza del graphic journalism credo che venga proprio da qui, e cioè dall'uso di strumenti che le forme più tradizionali di giornalismo in generale non hanno.

E il pubblico questo lo percepisce e lo cerca.


SDC - Ti sei fatto un'idea di cosa sia "onward migration" e di come questo fenomeno sia ormai piuttosto diffuso nel mondo?

Francesco Matteuzzi - Nel nostro libro ci siamo concentrati su una onward migration particolare: quella di abitanti del Bangladesh che negli anni Novanta sono migrati in Italia e che più di vent'anni dopo, quando cioè avevano ormai costruito una vita solida e strutturata, hanno deciso di ripartire per Londra.

Un fenomeno particolare che ci dovrebbe far riflettere sul tipo di Paese che siamo: un Paese che, anche dopo esserci vissuti per trent'anni, molti preferiscono lasciare per far crescere i figli in un ambiente meno razzista e che offre maggiori possibilità per una persona di origini straniere.
 


SDC - C'è un personaggio in particolare nel fumetto che ritieni debba essere tenuto d'occhio con attenzione dal lettore?
Francesco Matteuzzi - Tutti, semplicemente.
 
Il libro racconta le storie di vari individui: storie che singolarmente forse potrebbero anche non essere troppo significative, rappresentando appunto l'esperienza di una persona sola, ma che prese tutte insieme formano un affresco piuttosto preciso.

Sono storie che raccontano singole vite, ma che allo stesso tempo riassumono l'esistenza di moltissime altre persone che decidono di compiere la stessa scelta e partire, di nuovo, in cerca di qualcosa di meglio.

SDC - Come pensi reagisca il tipico lettore di fumetti a questa storia?
Francesco Matteuzzi - Non ti so rispondere, perché non ho idea di chi possa essere il "tipico lettore di fumetti".

Mi auguro che chi legge la nostra storia trovi uno scorcio di una realtà che probabilmente nemmeno sapeva esistere e che se ne interessi, magari approfondendo poi l'argomento con altri testi e consultando altre fonti.

Personalmente immergermi nelle storie di queste persone mi ha fatto sorgere diverse domande su vari temi.

Sulle cose che diamo per scontate, per esempio, o su cos'è che ci spinge ad andare avanti per la nostra strada oppure a cambiare la rotta della nostra vita. Ma anche sul mondo in cui stiamo vivendo e sulle altre persone in genere. Spero che siano le stesse domande che si faranno i lettori.

SDC - Stai lavorando a qualche altro progetto del quale vuoi raccontarci?
Francesco Matteuzzi - Sto lavorando a molte cose, con vari editori sia italiani che stranieri. Qualcosa posso dire, ma per la maggior parte dei lavori preferisco aspettare che vengano annunciati ufficialmente.

A breve usciranno finalmente le nuove storie di #vengoanchio (www.consigliatoaunpubblicomaturo.it), mentre sul versante edicola procede la collaborazione con Skorpio (Editoriale Aurea), sul quale escono le storie del mio Graham McCormack.

La prossima primavera dovrebbe anche vedere il mio esordio su Martin Mystère (Sergio Bonelli Editore).

In libreria, invece, dopo che in nemmeno due mesi sono usciti sia La linea dell'orizzonte (BeccoGiallo) che l'edizione italiana di Hokusai. L'anima del Giappone (Mondadori), mi calmo un poco. Ma poco, perché per giugno Prestel ha già annunciato Banksy. Die illustrierte Geschichte.

In tedesco, per il momento, ma spero che a seguire arrivi presto anche in edizione italiana.

Intervista a Francesco Saresin

SDC - Come ti sei documentato per la realizzazione grafica di questo lavoro?
Francesco Saresin - Data la natura del libro, di divulgazione di una ricerca etnografica, la documentazione mi è stata fornita da Francesco Della Puppa, ideatore del progetto e ricercatore.

Mi sono affidato alle centinaia di foto che mi ha dato, fondamentali per caratterizzare luoghi e volti del Bangladesh.

Entrare a contatto con questo mondo, oltre che grazie alla sceneggiatura anche grazie a questi materiali è stato fondamentale e difficilmente avrei potuto trovare riferimenti tanto precisi e accurati.

SDC - Quanto i disegni sono stati essenziali per sottolineare alcuni concetti di questa storia?
Francesco Saresin - Credo che questo libro abbia una natura particolare, essendo una sorta di documentario a fumetti sviluppato attraverso interviste.

Una cosa che è molto tipico per quanto riguarda il video. I disegni danno un carattere di unità a tutta la storia, ai vari momenti temporali e aree geografiche, alla presenza e al viaggio delle persone bangladesi fra i vari stati e fasi della loro vita.

SDC - Qual è l'approccio stilistico che hai adottato per le tavole del fumetto?
Francesco Saresin - Le tavole sono disegnate ad acquerello e con un segno a china sottile a definire le forme.

Ovviamente, la parte del leone la fa il colore.

Ho caratterizzato le scene della storia e i diversi luoghi che fanno da sfondo alle vicende dei personaggi con delle palette colori più calde e fredde a seconda che si trattasse di una scena ambientata a Londra o in Italia.

Ho cercato di dare ai primi piani dei personaggi una luce drammatica, in maniera da mostrare con più evidenza il valore emotivo dei fatti raccontati, la loro storia.

Questa parte emerge anche nei flashback, che sono colorati con un marroncino monocromo, dove spesso emergono le parti più difficili del processo della migrazione.
 


SDC - Quanto è stato difficile o facile raccontare questa storia per te?
Francesco Saresin - Si tratta di una storia molto diversa dalla mia produzione tipica, che ho affrontato con interesse, per imparare a lavorare in team e abituarmi a confrontarmi con altre teste pensanti che lavorano con lo stesso obiettivo.

Rendere interessanti delle scene con molti dialoghi, usare inquadrature diverse e dare equilibrio alle tavole a volte è stato difficile, così come il rappresentare luoghi altamente specifici, che richiedevano una immediata riconoscibilità per il lettore mi ha richiesto uno sforzo.

Più semplice la parte di caratterizzazione dei personaggi, che è una quota del mio disegno. I volti delle persone bangladesi, i tratti del naso e degli occhi, sono diventati naturali e spontanei dopo una certa quantità di pagine.

SDC - In che modo, secondo te, il lettore empatizzerà con i personaggi?
Francesco Saresin - Il racconto del vissuto interiore delle persone che cercano fortuna in un altro paese attraverso la migrazione spinge su dei punti altamente condivisibili.

Il desiderio di innalzare la propria qualità della vita, è qualcosa che riguarda tutti anche in un paese sviluppato come l'Italia.

Questa storia punta molto su questa similitudine, avere obiettivi alti, ideali, a volte forse irraggiungibili, e che non necessariamente sono poi confermati da un ritorno concreto nei fatti.

Il desiderio di raggiungere qualcosa di più è un fatto universale.

SDC - Stai lavorando a qualche altro progetto di cui vuoi parlarci?
Francesco Saresin - Sono attualmente all'opera su un nuovo libro a fumetti dalla produzione particolare.

Si chiama "Una stupida necessità"; è una storia che sto pubblicando autonomamente online.

È Ia mia prima storia lunga come autore unico e racconta di un rapporto sentimentale e di potere fra tre persone e dei suoi risvolti deviati e più oscuri.


Intervista a Francesco Della Puppa

SDC - Come nasce l'idea di questo fumetto?
Francesco Della Puppa - Il fumetto restituisce i risultati, le interpretazioni, le riflessioni, le intuizioni frutto di una serie di ricerche che ho condotto sulle migrazioni bangladesi e, nello specifico, sulla ricerca che ho condotto tra l'Italia e il Regno Unito, qua soprattutto a Londra, sulla nuova emigrazione degli immigrati bangladesi che, dopo una vita passata in Italia, hanno acquisito la cittadinanza italiana – e, quindi, il passaporto europeo – e sono andati oltremanica. La nuova emigrazione a Londra dei cittadini italiani di origine bangladesi, quindi.

Come spiego nella postfazione del volume, tra il 2009 e il 2012, ero un dottorando e stavo svolgendo una ricerca etnografica sul processo di emigrazione e immigrazione dal Bangladesh all'Italia e, nello specifico, un contesto locale – e industriale – del nordest italiano, anche se questa indagine mi avrebbe portato, da lì a poco, nei diversi snodi della diaspora bangladese in Italia (Roma, Marghera, Monfalcone…), ma anche in Bangladesh –- ovviamente –, in Arabia Saudita e a Londra.

Durante le fasi iniziali del lavoro sul campo, nel corso dei primi colloqui informali che avevo o delle prime interviste che condividevo con i miei interlocutori, vi era una dimensione che avevo tralasciato di indagare e approfondire, ma che emergeva con insistenza dalle parole dei protagonisti della mia ricerca: quella della cittadinanza.

Gli uomini bangladesi, immigrati in Italia, dove hanno ricongiunto le loro mogli e sono nati i loro figli, si riferivano alla cittadinanza formale, concessa – nel loro caso – dopo dieci anni di residenza continuativa in Italia, espressa nei documenti di riconoscimento ed, eventualmente, trasferita ai figli e al coniuge. Per gli immigrati italo-bangladesi con cui mi confrontavo, infatti, era importante il passaporto italiano e, come anticipato, europeo.

Se io vedevo nella loro acquisizione della cittadinanza italiana l'ultimo tassello del loro radicamento, anche sociale, in Italia, loro la perseguivano anche e soprattutto come chiave di accesso per un'ulteriore eventuale mobilità geografica in Europa. La meta ambita era pressochè sempre l'ex madrepatria coloniale, il Regno Unito e Londra, che suscitava e continua a suscitare, non solo voglia di riscatto, ma anche grande fascino e attrazione per generazioni di bengalesi e cittadini del Commonwealth.

Alla fine del mio dottorato, quindi, molti dei "miei" intervistati avevano tenuto fede alle loro aspirazioni e avevano portato a termine ciò che, negli anni precedenti, stavano pianificando. Molte famiglie che avevo conosciuto (alcune delle quali anche intimamente), infatti, avevano lasciato il Nordest italiano e si erano trasferite definitivamente nel Regno Unito, quasi sempre a Londra o nella greater London. Dapprima hanno iniziato a partire "pionieristicamente" alcuni nuclei familiari, presto seguiti da molti altri, secondo una tendenza che si auto-alimentava, forse anche un po' per imitazione e perché, appunto, trovavano già un appoggio oltremanica.

Prevedibilmente, le famiglie italo-bangladesi, ora trasferitesi oltremanica, dopo decenni trascorsi in Italia, rientravano, per visite più o meno brevi, a trovare gli amici, spesso in occasione delle vacanze. In queste occasioni, raccontavano soddisfatte la correttezza della loro scelta, presentando se stesse come famiglie realizzate e descrivendo il contesto britannico in termini positivi e con toni entusiastici. Questi ritorni temporanei in Italia e queste rappresentazioni idealizzanti del Regno Unito hanno spinto a chiedermi se, forse, similmente alle narrazioni idealizzate sulla vita in Italia – depurate dall'esperienza della solitudine, dagli episodi di razzismo, dal declassamento sociale – che gli immigrati proponevano ai familiari, amici e conoscenti, in Bangladesh, per presentare la decisione di emigrare come vincente e se stessi come uomini di successo, anche i racconti sulla nuova vita a Londra ostentavano gli aspetti positivi e omettevano le esperienze negative di tale percorso...

Consapevole che la realtà sociale che avrei incontrato non avrebbe avuto luci e ombre distinte da confini netti, ma che, più probabilmente, avrei trovato una molteplicità di traiettorie e situazioni sociali caleidoscopiche e ambivalenti, ho deciso, così, di riprendere i fili del mio percorso di ricerca e seguirli oltremanica, per comprendere e raccontare le implicazioni, positive e negative, di quella che ho definito nei termini di "onward migration".

Per ritornare sull'oggetto centrale della tua domanda, l'idea nasce, da un lato, dalla pigrizia di non voler scrivere un'ulteriore monografia sociologica: ho pubblicato diversi articoli sociologici, su riviste scientifiche molto importanti e, spesso, con coautori di rilievo, in cui ho restituito parte dei risultati della ricerca svolta a Londra, ma non riuscivo a decidermi di iniziare la stesura di un libro – magari in inglese – e, anzi, rimandavo sempre questo proposito. Dall'altro lato, però, nasce anche dal desiderio – direi quasi dalla necessità – di raggiungere un pubblico di lettori e lettrici non specialisti, adottando un linguaggio più accattivante per una platea di potenziali lettori più ampia. Quasi sempre, infatti, i lavori scientifici, compresi quelli sociologici, antropologici o geografici, rimangono chiusi nella ristretta cerchia di accademici e studiosi e, spesso, vengono letti in maniera superficiale e sbrigativa anche da questi. Ritengo, invece, che studiosi e scienziati – nel mio caso, scienziati sociali – abbiano un dovere sociale e collettivo, che nasce dal privilegio di fare ricerca e che è quello di promuovere e diffondere il risultato dei propri lavori. Infine, nasce anche dallo stimolo di sperimentarmi in un linguaggio, per me, almeno nella veste di autore, nuovo, in modalità inedite, in una dimensione più creativa o, meglio, "diversamente creativa".



SDC - Cosa si intende per "onward migration"?
Francesco Della Puppa - Quello dell'onward migration è un fenomeno solo parzialmente inedito. Nella letteratura sociologica e geografica, ma ancora di più in quella storica e antropologica, sono già stati approfonditi fenomeni di migrazioni "multiple" ed è possibile individuare diverse prospettive e, di conseguenza, definizioni che descrivono le molteplici mobilità all'interno della medesima traiettoria migratoria. Faccio alcuni esempi: concetto di "transit migration" è stato adottato per analizzare il transito di richiedenti asilo e migranti irregolari diretti verso un contesto di destinazione altro rispetto a quello in cui si trovano; l'espressione "secondary migration" è stato utilizzato per riflettere sulle traiettorie di cittadini originari di Paesi del "sud globale" che hanno soggiornato regolarmente e in maniera prolungata nel tempo, ma temporanea, in contesti nazionali con economie avanzate – i centri mondiali del cosiddetto "sistema mondo", prima di giungere nel definitivo contesto di destinazione; con "stepwise international migration" si riconduce una migrazione fatta di molte "tappe", ricondotta, però, a una deliberata strategia adottata dagli emigranti per accumulare le risorse economiche, sociali, relazionali necessarie al raggiungimento della meta ultima della migrazione. Con "serial migration" ci si è riferiti alla "carriera migratoria" di soggetti che hanno vissuto un periodo significativo di tempo, raggiungendo un buon livello di inclusione sociale in almeno tre contesti nazionali, e che hanno attivato tale mobilità internazionale per perseguire migliori opportunità educative, professionali o familiari; l'espressione "twice-migration" ha avuto piuttosto successo – io stesso l'ho ripresa in un articolo scritto col geografo britannico Russell King – e ha descritto la migrazione delle popolazioni sikh che, nei primi anni del ventesimo secolo, dopo aver lasciato il Punjab per il Kenya e l'Uganda, dove trovarono occupazione nella costruzione delle ferrovie nazionali, si trasferirono nel Regno Unito, all'alba del processo di "africanizzazione" degli anni immediatamente successivi all'indipendenza delle ex colonie nel continente. Il termine "onward migration", invece, si inserisce nel quadro delle riflessioni sulla mobilità intraeuropea di cui sono protagonisti i migranti originari di un Paese terzo che hanno acquisito la cittadinanza formale, appunto. Diversamente dai protagonisti delle mobilità definite con le espressioni che ho appena richiamato, gli emigrati-immigrati che atttuano una "onward migration" non avrebbero pianificato tale riattivazione migratoria all'inizio della loro esperienza di migrazione, ma avrebbero concretizzato tale decisione in seguito al cambiamento del contesto socio-economico di residenza, a un mutato orizzonte di possibilità, a un ampliamento delle loro aspirazioni migratorie. Ritengo, quindi, che l'espressione "onward migration" descriva meglio il fenomeno che ho visto e approfondito.


SDC - Quali sono le motivazioni per le quali i migranti giungono in Italia e poi decidono di abbandonarla? Nella storia, questi fenomeni, sono sempre ricorrenti e ciclici? O è frutto solo degli ultimi decenni?
Francesco Della Puppa - L'immigrazione nell'Europa occidentale, e in Italia in particolare, è stata presentata più e più volte come una transitoria emergenza, mentre invece non ha nulla di transitorio o di emergenziale. I tre fattori che ne sono all'origine, infatti, hanno tutti un carattere strutturale.

Il primo è costituito dalle disuguaglianze economiche di sviluppo, tra nazioni e continenti; le diseguaglianze esistenti sul mercato mondiale, che fin dal suo sorgere, e per sorgere, ha funzionato come una fucina di disuguaglianze, oltre che tra classi, anche tra popoli e nazioni. Il colonialismo storico, che ha accompagnato la nascita del mercato mondiale, ha unito e insieme spietatamente gerarchizzato i diversi mondi da cui era composto il mondo prima che si affermasse il capitalismo. È questo il retroterra lontano, ma ancora oggi vivo e operante, dei presenti squilibri strutturali di sviluppo. Squilibri, che nell'attuale processo di globalizzazione, i meccanismi dell'economia di mercato e le istituzioni finanziarie e militari che li assecondano e (in apparenza) li "governano" hanno riprodotto in nuove forme, non sempre attenuate in confronto al passato, che potremmo definire "neocoloniali". In questo quadro, si inseriscono le aggressioni militari che l'occidente – spesso attraverso i suoi intermediari, ma altrettanto spesso anche direttamente con i suoi eserciti –, Italia compresa, stanno perpetrando nei confronti dei popoli e delle nazioni del così detto "Medio Oriente". Si pensi, ad esempio, alle aggressioni nei confronti dell'Iraq e della Siria che stanno spingendo enormi masse di persone a lasciare le loro case e i loro paesi e molte di queste persone cercano, comprensibilmente, di entrare in Europa. Oppure, ancora, si pensi all'azione di rapina economica e devastazione ambientale delle multinazionali energetiche (molte delle quali italiane) sull'area del Delta del Niger, in Nigeria, causando, ancora una volta, emigrazioni di massa, dalle campagne alle città, nei Paesi adiacenti, dall'Africa all'Europa. Ma si pensi anche al recente fenomeno dei così detti "ecoprofughi", ossia agli emigranti per cause legate alla distruzione ambientale – entro i quali vanno annoverati anche il landgrabbing e il watergrabbing – e ai cambiamenti climatici, ulteriore effetto della voracità coloniale e capitalistica.

Colonialismo – e neocolonialismo – e migrazioni internazionali verso l'Occidente stanno in collegamento diretto tra loro, sicché si può essere sicuri: fino a quando permarranno relazioni di tipo coloniale o semi-coloniale tra le nazioni del Nord del mondo e del Sud globale, è del tutto impossibile che gli attuali movimenti migratori cessino o si riducano; è prevedibile, semmai, il contrario.

Non si tratta solo, però, del rapporto tra Nord e Sud del mondo presi in blocco, come se fossero, e non lo sono, entità omogenee sul piano territoriale e sociale. C'è stato e c'è anche un "Sud" interno al Nord, all'Europa, che ha prodotto e continua a produrre emigranti. Si pensi agli immigrati in Europa occidentale che proviene da altri paesi dell'Unione (Romania, Bulgaria, Polonia, etc.) e da paesi europei in senso lato (Ucraina, Moldavia, Serbia, etc.). All'interno della medesima Europa dunque, a seguito del crollo dei regimi del "socialismo reale", il Sud si sta allargando verso Est ed è esattamente da queste due aree del mercato mondiale, in quanto soggette, in un grado o nell'altro, a delle relazioni di tipo coloniale, che proverrà in futuro la grande massa degli emigranti verso l'Europa e l'Italia.

Il secondo fattore che è destinato ad alimentare in modo permanente le attuali migrazioni verso l'Europa e l'Italia è la crescita delle aspettative delle popolazioni del Sud – e dell'Est – del mondo. Per quanto sia terribilmente amaro, e lo è, lasciare la propria terra e i propri cari, molti tra gli elementi più giovani, sani, istruiti, intraprendenti di questi popoli sono disposti ad emigrare anche verso lontani lidi inospitali pur di sfuggire alla sorte di povertà e di emarginazione che li attende in patria; una sorte che, per l'appunto, non si intende più subire passivamente.

Infine, la terza causa della continua crescita del numero degli immigrati in Europa e in Italia è la richiesta inesauribile di forza-lavoro a basso costo e bassissimi (o nulli) diritti che proviene dal sistema delle imprese e dalle famiglie europee-occidentali e italiane. Una richiesta pressante quanto mai lo è stata in precedenza, di braccia, menti, corpi e, per molti versi, cuori "flessibili", che siano disposti, per stato di necessità, ad accettare l'inaccettabile, quanto meno nei primi e assai difficili tempi della loro permanenza qui "da noi".

Va detto, però, che gli immigrati, soprattutto coloro i quali provengono da Paesi geograficamente lontani, non appartengono alle fasce più povere, alle classi più basse, della loro società: la migrazione, infatti, è un processo socialmente selettivo, richiede risorse – culturali, sociali e, soprattutto, economiche – da investire. Ciò era certamente vero negli anni '90 e 2000, quando i bangladesi che arrivavano in Italia – i miei intervistati, protagonisti de La linea dell'orizzonte – appartenevano e appartengono alla classe media e, spesso, medio-alta della società bangladese, ma, in parte, è vero tutt'oggi, anche se i costi di tale migrazione si sono abbassati e questa esperienza è più accessibile anche agli strati più "popolari" della società di origine. Le spinte soggettive della migrazione dal Bangladesh all'Italia (attenzione: sto parlando della migrazione dal Bangladesh all'Italia, mentre la migrazione dal Bangladesh al Sud Est asiatico, dal Bangladesh al "Medio Oriente" e quella dei bangladesi dal "Medio Oriente" all'Italia meriterebbero un'analisi a parte), quindi, sono legate, soprattutto, alla ricerca di mobilità sociale ascendente da parte di esponenti della classe media.

Questi individui, mediamente istruiti e tutto sommato benestanti in Bangladesh, percepiscono, che, in patria, loro possibilità di miglioramento economico sociale – ossia di miglioramento della condizione sociale ed economica propria e delle generazioni future, rispetto a quella della generazione dei propri genitori –, ma anche semplicemente di poter trovare un inserimento lavorativo adeguato al loro status sociale sono "bloccate". Intraprendono, così, un'emigrazione verso l'Europa, dove faranno gli operai, certo, ma avranno uno stipendio con cui potranno inviare le rimesse e fare degli investimenti "a casa", potranno garantire ai propri figli condizioni di vita e possibilità di realizzazione "europee", potranno godere di alcune garanzie (welfare, sanità, forse pensioni...) impensabili nel Paese di origine.

Ecco che, quindi, tra gli anni 90 e gli anni 2000, si assiste, in Italia, a una grossa crescita delle presenze bangladesi – giunte direttamente dal Bangladesh o da altri Paesi europei – attirati da un'economia e un mercato del lavoro ancora relativamente includenti e che offrivano ancora una discreta stabilità professionale e da politiche migratorie che, per quanto restrittive ed escludenti, potevano essere definite "strumentalmente lassiste". Come scrivo nell'appendice de La linea dell'orizzonte, oggi, invece, l'orientamento liberista delle politiche economiche e sociali si è fatto sempre più virulento, il mercato del lavoro non pare offrire molte possibilità di mobilità sociale ascendente (come ho detto: maggiori condizioni di vita e miglior posizionamento di classe sociale per sé e per le generazioni future, rispetto alle generazioni precedenti) per i figli delle classi lavoratrici in generale e ancora meno per i giovani di origine immigrata, la crisi economica del 2008 ha ulteriormente mortificato le possibilità di realizzazione economica e sociale, creando un'opprimente clima asfittico. Al contempo, anche le aspirazioni di questi immigrati – appartenenti alla classe media e, spesso, medio-alta nel Paese di origine – sono mutate, coerentemente con il ridisegnamento del loro posizionamento familiare e biografico: non più "solo" figli emigrati che inviano le rimesse alla famiglia di origine, ma anche mariti e, soprattutto, padri, animati dalle responsabilità, dai doveri e dalle aspettative di realizzazione dei loro figli. La loro emigrazione, è stata dettata dalla ricerca della riattivazione di mobilità sociale verso l'alto per se stessi e, soprattutto, per la famiglia che avrebbero creato, ma, se tale miglioramento sociale ed economico, che sembrava realizzabile nei loro primi anni di stabilizzazione in Italia, è venuto meno a causa dei cambiamenti strutturali che sono intercorsi negli ultimi trent'anni, l'unico modo per non vanificare tanto le loro aspirazioni di emigrati, quanto i loro sacrifici e le loro sofferenze di immigrati e per continuare a dare senso alle loro esistenze era emigrare ancora.

La meta ambita era pressochè sempre l'ex madrepatria coloniale, il Regno Unito e Londra, che suscitava e continua a suscitare, non solo voglia di riscatto, ma anche grande fascino e attrazione per generazioni di bengalesi e cittadini del Commonwealth.

Le motivazioni alla base di questa nuova emigrazione sono mostrate nelle pagine del nostro lavoro a fumetti e costituiscono un fitto intreccio di spinte economiche e culturali, collettive e individuali, che si rafforzano vicendevolmente: innanzitutto, come anticipato, le aspirazioni a una mobilità sociale ascendente per i propri figli, soprattutto nel quadro della crisi che ha colpito più duramente i Paesi dell'Europa Mediterranea, con il corollario di declinazioni che tale investimento sul futuro delle nuove generazioni comporta (in primis, la scolarizzazione in lingua inglese e, quindi, un ampliamento internazionale delle possibilità di inserimento nel mercato del lavoro). Ma anche le aspettative relative a un contesto percepito, in maniera vagamente idealizzata, come maggiormente multiculturale e meritocratico che permetta a ciascuno – e soprattutto ai giovani, di qualsiasi origine nazionale, linguistico-culturale e religiosa – di valorizzare le proprie capacità e il proprio potenziale, proprio in virtù del passato coloniale britannico; la volontà di vivere in un tessuto sociale ritenuto più cosmopolita e, soprattutto, in un mercato del lavoro più includente, smarcandosi così dall'etichetta di "straniero" e dal ruolo di "operaio generico"; il desiderio di entrare in una collettività di "connazionali" più ampia e inserirsi in un contesto in linea con quelle che si percepiscono come le proprie "appartenenze culturali" e religiose; la ricerca di un sistema di welfare, considerato – a ragione o a torto – più includente rispetto a quello "familistico" o "mediterraneo" che caratterizzerebbe l'Italia.
 


SDC - Il fenomeno delle"onward migration" è destinato a incrementare il flusso delle migrazioni o, prima o poi, si interromperà? Qualcosa sta cambiando al riguardo? Ci sono altre "onward migration" che si stanno formando?
Francesco Della Puppa - Come ho detto, le cause delle migrazioni non sono contingenti, passeggere, temporanee o emergenziali, ma permanenti e strutturali. Se non cambierà l'ordine economico, politico, sociale – militare – mondiale, ossia il sistema socio-economico vigente e, quindi, non cesseranno le diseguaglianze globali, non cesseranno nemmeno le migrazioni internazionali, anzi: sono destinate a intensificarsi, a dispetto i qualsiasi barriera legislativa, fisica, naturale o armata, atta ad ostacolare le mobilità umane. Analogamente, anche il fenomeno delle "onward migraiton" va correlato alle sue cause e alle sue spinte e, oltre che incrementare, credo che, entro il quadro delle migrazioni intercontinentali e intracontinentali, le "onward migration" si complessificheranno.

Accanto alle "onward migration" che vedono protagonisti gli immigrati, giunti in Europa meridionale oltre un ventennio fa e appartenenti a specifiche fasce sociali nel loro Paese di origine, infatti, si stanno affiancando le "onward migration" di richiedenti asilo e rifugiati, che giungono via mare e, soprattutto, via terra in Italia e che aspirano ad altre destinazioni in Europa.


SDC - Qual è la tua esperienza col fumetto?
Francesco Della Puppa - La mia esperienza è prima di tutto quella di lettore. Ho sempre letto fumetti, sin da piccolo, come molti, credo. Da bambino ero abbonato a Topolino, ricordo che aspettavo con impazienza il mercoledì, che era il giorno in cui il postino me lo faceva trovare nella cassetta della posta. Prima ancora leggevo i vecchi Topolino che trovavo in casa, forse di mio fratello o mio zio. Scavando più indietro, ricordo delle brutte e poco interessanti edizioni di Braccio di Ferro, Tiramolla e il tentativo di farmi piacere Alan Ford che, però, purtroppo, non ho mai apprezzato e so che, forse, mi sono perso qualcosa. Fra l'altro so che, assieme ai film con Bud Spencer e Terence Hill, è un prodotto della cultura di massa italiano molto famoso nei Paesi dell'ex Jugoslavia…

In un tardo pomeriggio di fine anni '80 o primi anni '90, nella sala d'aspetto del barbiere del mio paese iniziai a leggere un albo di Dylan Dog, "I conigli rosa uccidono", e ne rimasi folgorato, al punto che, poiché non riuscii a finirlo, in quanto arrivò presto il mio turno sulla poltrona, lo rubai e lo portai a casa per terminarlo sdraiato sul letto di camera mia. Da lì inizio una passione – condivisa con mio fratello – per questo personaggio della Bonelli che, però, man mano che ci si avvicinava al numero 100, aveva sempre meno da dire e, quindi, dopo 100 mesi, terminai di recarmi in edicola per acquistarlo. Poi ci fu il periodo – per fortuna terminato presto – di interessamento per i manga, negli anni delle superiori e l'interesse – con basi a mio parere, ben più solide – per gli autori italiani che pubblicavano tra gli anni '70 e gli anni '80 e che frequentavano l'antagonismo e le controculture, mi riferisco ad Andrea Pazienza, in primis, ma anche Tamburini, Scozzari, insomma, il giro delle riviste "Il Male" e "Frigidare", di cui possiedo molte annate e tutti gli albi speciali in originale, ma, fuori dall'Europa anche, ad esempio Crumbs o Shelton.

I miei interessi per la realtà sociale mi spinsero verso quello che, in maniera piuttosto mainstream è definito "graphic journalism" – anche se non è solo giornalismo – e, poi, "graphic novel" – anche se non ritengo che il sostantivo "novel" sia necessario per legittimare il valore di questo linguaggio.

Quindi, le letture che hanno fatto tutti: Art Spiegelman, Joe Sacco, Marjane Satrapi… In seguito, il disturbante e, per me, umanamente disgustoso, Chestern Brown, i lavori cupi di Igort sull'Ucraina, lo stile malinconico di Reviati, Bunjevac, Sattouf il volume di Toffolo sui campi di concentramento italiani sul confine orientale.

Due autori che hanno generato in me la cconsapevolezza di voler dare alla luce questo nostro volume e che hanno influenzato la mia scrittura sono stati Rocchi e Demonte con i volumi sull'immigrazione cinese in Italia e, soprattutto, Larcenet de "Lo scontro quotidiano".

L'ultima cosa a fumetti che mi ha molto colpito è stato il lucido "Padovaland" di Miguel Vila.

Qualcuno di voi conosce Tarvos.


SDC - Il graphic journalism è senz'altro un interessante spunto di riflessione e di approfondimento che mira a raggiungere un pubblico sempre più vasto...
Francesco Della Puppa - Sì. Premetto, però, che non definirei il nostro lavoro "Journalism". Non si tratta, infatti, di un reportage giornalistico o un'inchiesta, ma di una ricerca sociologica o socio-antropologica, contiene dei contenuti teorici, che emergono dall'indagine empirica, c'è il ricercatore "nel campo", col suo corpo, le sue categorie interpretative, la sua identità incorporata e la sua riflessività.

Per ritornare alla tua suggestione: effettivamente uno degli stimoli per la realizzazione di questo lavoro, oltre alla pigrizia di evitare la scrittura di un saggio "tradizionale", come anticipato, e alla necessità, per me stesso, di coltivare un progetto e una dimensione di me che avesse a che fare con la creatività (per quanto la scrittura che caratterizza la sociologia che pratico è piuttosto narrativa, soprattutto da quando non suono più in band punk o, più o meno, rock, sentivo che la sfera artistico-creativa del mio agire mi mancava), c'è stata la volontà di poter raggiungere una platea di lettori che andasse oltre la cerchia delle persone più o meno sensibilizzate, trattandosi di tematiche relative alle migrazioni, quando va bene; agli specialisti – accademici, scienziati sociali, studiosi – fra cui ci leggiamo (e nemmeno sempre con attenzione), quando va male. Oltre a quel dovere sociale che ritengo investa gli scienziati, anche gli scienziati di tutte le discipline.


SDC - Stai lavorando a qualche altro progetto del quale vuoi raccontarci?
Francesco Della Puppa - Sì, con Francesco Matteuzzi, che mi ha supportato e affiancato nel cammino da cui ha avuto esito "La linea dell'orizzonte" e la collega e amica sociologa Giulia Storato, stiamo abbozzando un ulteriore lavoro a fumetti sul tema dei rifugiati e richiedenti asilo, concentrandoci sulle traiettorie migratorie, abitative, lavorative, sociali di coloro che, per diverse ragioni, sono al di fuori del sistema di accoglienza istituzionale italiano.

Abbiamo risposto alla call di una rivista e, nel caso il nostro progetto dovesse convincerli, come speriamo, ci abbineranno un disegnatore. Se, invece, dovessero scartare la nostra proposta, la realizzeremo, dandogli maggior respiro narrativo, per conto nostro, imboccando altre strade, magari sempre con Becco Giallo e magari ancora con Francesco Saresin, se vorranno...


Titolo: La linea dell'orizzonte. Un ethnographic novel sulla migrazione tra Bangladesh, Italia e Londra
Autori: Francesco Della Puppa, Francesco Matteuzzi e Francesco Saresin
Caratteristiche: 168 pp. col., brossura con alette
ISBN: 9788833141862

Francesco Matteuzzi
Francesco Matteuzzi è un fumettista, giornalista e scrittore italiano. È autore di romanzi, racconti e sceneggiature per fumetti, cortometraggi e radiodrammi, oltre che di un libro intervista a Dave McKean e di articoli sul fumetto pubblicati dalla rivista Fumo di China.
Ha collaborato alle serie a fumetti L'insonne, The Secret, Jonathan Steele e Dampyr.

Francesco Saresin
Fumettista e disegnatore con base a Bologna. Serializza online il suo graphic novel Una stupida necessità dal 2021. Dal 2020 pubblica i suoi fumetti brevi online sulla pagina web Ricordorama. Fondatore del collettivo di autoproduzione Brace, ha pubblicato i libri Non ci tocchiamo mai veramente, (Brace fumetti, 2017, Bologna) e Daniele tra gli alberi (Canicola edizioni, 2016, Bologna).

Francesco Della Puppa
Dottore di ricerca in Scienze Sociali, ricercatore, docente e sociologo presso l'Università Ca' Foscari di Venezia, svolge ricerca nell'ambito delle migrazioni internazionali, della famiglia immigrata, del lavoro immigrato, della costruzione sociale del genere nell'esperienza migratoria, ma anche del lavoro e degli studi urbani, prediligendo l'approccio etnografico.
Ha pubblicato diversi saggi e articoli, su riviste nazionali e internazionali, sui temi delle migrazioni internazionali. Ha vinto il premio Pietro Conti "Scrivere le migrazioni".
"La linea dell'orizzonte. Un'ethnographic novel sulla migrazion tra Bangladesh, Italia e Londra" è il suo primo lavoro a fumetti.