DIEGO K. PIERINI
VITE INFINITE
MEMORIE AD ACCESSO CASUALE DI UN VIDEOGAMER
Edizioni Ultra – 192 pp. – 15,00 euro


Un libro per appassionati di videogames -e non solo- alla scoperta di un mondo che con la tecnologia si sta evolvendo sempre di più, dagli albori sino ai giorni d'oggi. Frutto dell'esperienza di Diego K. Pierini e della sua passione per i videogiochi.

Come nasce l'idea di questo libro?
"Vite infinite" nasce da una conversazione con un caro amico di smanettamenti informatici.

Si parlava, con sguardo all'orizzonte e profusione di pacche solidali, di quanto fosse bella l'infanzia perduta, quando tutto girava attorno ai joystick, ai mostri alieni da far fuori, a quei dannati floppy che gracchiavano per minuti infiniti prima di rovesciarci addosso schermate a quattro colori di puro cub(ett)ismo.

Pensavo fosse un sintomo della deriva anagrafica, poi ho scoperto che là fuori c'era un mare di gente ansiosa di tornare a vivere quelle vibrazioni e, magari, renderle attuali, rielaborarle, ricostruirne una narrazione pop condivisa.

Insomma, non eravamo i soli a regredire, anche perché i Millennium Falcon della Lego andavano già a ruba e non potevano essere solo i dodicenni a comprarli dato che costavano come un'utilitaria: l'universo ludico era stato sdoganato.
Si poteva finalmente parlarne senza sembrare idioti.

Ci ho provato, dedicandomi al settore che più sentivo mio, quello del videogame. Ma non garantisco, per quanto riguarda la parte del non sembrare idiota.

L'arrivo dei videogames e dei primi cabinati, come ha cambiato il tuo modo di approcciarti al gioco? (Essendo tu in quegli anni un bambino)
In realtà i primi giochi arcade circolavano già negli anni '70, quindi io sono arrivato dopo. Ma li ho scoperti abbastanza presto: in fondo quasi tutto ciò che riguarda il gioco ha un contenuto di simulazione e per me la cosa era ancora più vistosa, dato che ho sempre avuto la tendenza a usare gli oggetti come catalizzatori di costruzioni fantastiche.

Tra i miei passatempi preferiti c'era l'uso di un cockpit d'astronave disegnato da mia madre su un foglio a quadretti: leve, pulsanti, un'enorme vetrata sullo spazio infinito pullulante di stelle e altri velivoli. Praticamente lo schermo di Wing Commander, ma statico e riprodotto a matita: io mi sedevo e controllavo il veicolo, esploravo galassie, conquistavo mondi.

Buzz Aldrin, scansati.

Da lì a uno schermo vero il salto era minimo. E infatti appena intercettato un catodico con delle levette a portata di mano, le mie pupille si dilatarono come ai figli di Ned Flanders quando assaggiano per la prima volta lo zucchero, o al protagonista di "Trainspotting" quando... beh, credo sia chiaro.

In questo senso, non credo si possa dire che il videogame mi ha cambiato: credo piuttosto che il mio giocare abbia sempre poggiato su un substrato emozionale totalmente consustanziale a quello dei videogiochi. "Substrato" e "consustanziale" servono a far annuire il lettore anche laddove io non abbia detto assolutamente nulla.

Qual è il videogame al quale ti piaceva più giocare?
Usando un termine strettamente tecnico, ero una pippa. E infatti conosco i videogiochi perché avevo un sacco di tempo per starli a guardare.

Nel libro lo dico a chiare lettere: io i giochi li corteggiavo, più che giocarli - adotto lo stesso schema nelle relazioni di coppia e infatti ho una stanza ricolma di Amiga e amo i gatti.

Comunque amai Rampage, perché usare Godzilla per fare a pezzi dei grattacieli esprimeva la mia vigorosa tensione anarcoinsurrezionalista, e R-Type, con la sua atroce difficoltà, mentre a casa mi perdevo dietro Indiana Jones and the Last Crusade, Speedball 2 e Sensible Soccer, un gioco di calcio che non sembrava simulare il calcio, ma uno sciame di insetti - ed era comunque divertentissimo.

Su tutti, però, svetta Golden Axe: dei tizi minimamente vestiti che affettavano gente in uno scenario fantasy. Mi piaceva così tanto che comprai anche la versione Gig Tiger, cioè lo scacciapensieri a cristalli liquidi: giocarci era meno entusiasmante che impostare la radiosveglia, però c'era il barbaro sulla scatola!

Tra i vecchi cabinati e le nuove consolle di giochi, continui a preferire gli "oldies" oppure anche tra i nuovi c'è qualcosa di buono?
Sono tecnologie diversissime, per un concetto di gioco quasi antipodale: da un lato allenamento, reiterazione, pattern, dall'altro perlopiù narrazioni, universi alternativi, flusso di gioco progressivo.

Il gioco delle origini è un fine, quello odierno mi sembra quasi più un mezzo di coniugazione con delle alterità possibili: in Pac Man il tuo gesto è il contenuto, il gioco in sé. In The Last of Us è quasi un'interfaccia.

Titoli interessanti ne escono a bizzeffe, sia nel mainstream che nell'indipendente (ancora ricco di giochi vecchio stile): tra i primi sono un fan Bethesda, perché Skyrim e Fallout sono due esperienze monstre, tra i secondi ci sono tonnellate di esperimenti interessanti, menziono Limbo perché ha un appeal visuale davvero unico.

Semmai posso dire di essere ancora un po' perplesso nei confronti della mid-generation di console: non c'è stato un salto di qualità, dopo Xbox360 e PS3, mi pare che l'industria stia ancora cercando una nuova via, un nuovo paradigma.

HDR e 4K non sono sufficienti.

Videogames e fumetto spesso si fondono nel ricreare universi fantastici: quali sono i tuoi fumetti preferiti?
Sorpresa: non sono un fanatico lettore di fumetti.

Il signore mi ha investito con le sciagure di filosofia, heavy metal e videogiochi, mi sono risparmiato i comic e ho scelto l'aurea mediocritas del pallone, così magari i compagni di scuola smettevano di prendermi a sberle - strategia fallimentare, peraltro, anche perché sui campi di calcio i primi a tirarmi pedate sono di solito i compagni.

Ciò precisato, escludendo la lunga parentesi preadolescenziale di devozione a Topolino (che mi ha insegnato quasi tutto quello che so della vita) pendevo dal lato giapponese (ho adorato Video Girl Ai, ma adorato fino alle lacrime, eh) e la cosa si faceva ancora più evidente nel passaggio agli anime: Leiji Matsumoto, il padre di Harlock, Galaxy Express 999 e soprattutto Star Blazers, mi ha marcato in modo profondo.

Prima o poi riuscirò a costruire il cannone a onde moventi e Trump si incazzerà anche con me.

Non solo videogames però: il tuo percorso di scrittore si intreccia anche con la tv. Vuoi raccontarci qualcosa al riguardo?
Professionalmente sono arrivato prima alla televisione che alla scrittura: ho collaborato con molti programmi, dalla satira alla politica, passando per cultura e cinema - che è stato motore di tutto, perché il punto è che io sono completamente soggiogato dal fascino dell'immagine riprodotta, sia essa videoludica, fotografica o, in particolare, cinematografica.

Per anni ho offerto il mio contributo a "Parla con me", il talk show di Serena Dandini, scrivendo testi collegati a cinema, scienze e musica, oggi invece è proprio quest'ultima il centro del mio lavoro per "Propaganda Live", il programma che ha raccolto l'eredità di "Gazebo" su La7.

Qual è il programma al quale tieni di più o semplicemente ti sta più a cuore per le tematiche che racconta?
Il grave dilemma è: sembrare aziendalista o farmi licenziare?

Fuor di boutade, confesso che di televisione per puro piacere ne guardo davvero poca.

La mia professione, però, mi impone di essere informato e conoscere palinsesti, proposte, format. Seguo abbastanza i programmi d'attualità, tendo a tenere la televisione accesa in sottofondo, quindi soffermarmi sui frammenti che mi interessano.

Guilty pleasure assoluto: "Affari di famiglia". Agile, divertente, istruttivo e clamorosamente accondiscendente verso gli accumulatori seriali come me.

Pensi che la tv possa avere uno spazio destinato ai videogames oppure il bello è proprio quello di viverli altrove?
Credo che la TV abbia il dovere morale, ma anche pragmatico, di dedicare uno spazio informativo ai videogames.

Credo anche che gli autori dovrebbero cercare di avvicinarsi maggiormente ai codici espressivi del gaming: sono pregni di idee, possibilità, tracce.

Il videogioco in 40 anni di sviluppo ha esplorato uno spettro molto ampio di percorsi, giusto studiarne l'applicabilità, giusto provare a ibridare. E poi si parla sempre di gamification: oltre alla televisione che assume al suo interno i videogiochi, magari potremmo recuperare il videogioco come strumento informativo e di formazione critica.

Insomma, mi pare che si tratti di oggetti contigui, l'osmosi è quasi fisiologica.

Le generazioni future, secondo te, a quali tipo di videogames andranno incontro?
Il passaggio successivo sarà probabilmente la realtà virtuale.

Una volta impostosi come standard, vivremo plausibilmente una stagione di ritorno delle realtà alternative di massa. E probabilmente il tutto si fonderà al social networking.

Insomma, degli universi reticolari di comunicazione non ludica, vissuti in prima persona, all'interno del quale si potranno innestare diramazioni che saranno a tutti gli effetti giochi di diversa dimensione e complessità.

Tutto multigiocatore, con una fusione tra intelligenze strettamente artificiali e giocatori umani.

Il cyberpunk non era un movimento fallimentare, era solo esteticamente zoppo, e in eccessivo anticipo sui tempi. Ora potremmo essere pronti.

Prossimamente ci saranno appuntamenti dove potrai presentare il libro ai lettori?
Sono stato così tanto in giro a presentarlo che 19 regioni su 20 mi hanno bandito.

Resta solo il Molise, ma mi hanno detto che in realtà non esiste.
(Spiacente, ma sono di origini Molisane e posso smentirti su questo, quindi ti aspettiamo in Molise).

A quali altri progetti stai lavorando in questo momento?
A parte quello di una stazione spaziale in grado di distruggere un pianeta?

Ho una graphic novel in cantiere, un noir sospeso tra gotico e fantascientifico, e sto pensando di tornare sull'intreccio del mio penultimo libro, il romanzo "Overdrive".

Avevo cominciato a lavorare a una distopia pesantemente debitrice nei confronti di Terry Gilliam e Aldous Huxley, ma il tempo corre più veloce di me e finirei per scrivere un romanzo storico.

Comunque il mio vero cruccio è la lista della spesa per domani, l'ultima volta che ho aperto il frigo dentro c'era Nyarlathotep.


Diego K. Pierini
Nato nel 1979, è la prova vivente che i videogiochi fanno male.

Miope, moderatamente sociopatico, ridotto in povertà dalla passione per le console vintage e come se non bastasse laureato in filosofia.

Ha scritto d'intelligenza artificiale, culture digitali, musica e cinema. Ha alle spalle un lungo percorso nel settore televisivo, prima come autore di Parla con me, quindi a Voyager, The Show Must Go Off e Gazebo, con cui lavora tuttora, e collabora con Synthesis come traduttore freelance di videogiochi.